di Mario Cardinali
Scusate se la butto sul personale, ma c’ero anch’io fra quel milione e duecentomila richiedenti l’abrogazione referendaria del cosiddetto “omicidio del consenziente” (art. 579 c.p.), impropriamente definita “Referendum sull’eutanasia”. C’ero anch’io fra quanti pensavano di poter infine offrire ai malati inguaribili e immobilizzati nei patimenti estremi una speranza di buona morte invece della certezza d’interminabili sofferenze atroci, fisiche e morali.
Perché anch’io ne avevo visti anche troppi, di familiari e amici condannati alla sofferenza tanto più malvagia quanto più inutile, tanto più disumana quanto più indegna, spronati magari alla sopportazione estrema da chi gli prometteva poi vite migliori in un aldilà di fede. Come se la via a un dio sperato debba comunque percorrere strade di flagellazione terrena, fisica e morale.
E son rimasto anch’io profondamente offeso da una Corte Costituzionale che nel suo cavilloso controllo di legittimità ha dichiarato inammissibili quella richiesta referendaria e quella speranza umana, negando ai cittadini in via di diritto l’esercizio della libertà d’espressione, e in via di convivenza civile l’esercizio della pietà solidale.
E penso, guarda un po’, che in quella inammissibilità non ci sia soltanto il “naturale” riflesso politico d’una magistratura intimamente connessa, in quanto potere, con tutti gli altri poteri esercenti il dominio generale, ma ne traspaia anche lo storico carattere “religioso”, in un paese storicamente, socialmente e culturalmente intriso di dipendenza cattolico–vaticana (…)
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