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LA SERIETÀ DEL CULO

CON RISPETTO PARLANDO, DÉ!
di Mario Cardinali
Chiacchierata tutta ammodino su alcune parolacce dell’idioma livornese. Che per parolacce non le tiene, ma per espressioni vivaddio sincere ed anche familiari d’un irriverente spiritaccio popolare poco incline agl’infingimenti quantunque letterari.
 

Seconda puntata

LA SERIETÀ DEL CULO
Prima parte

Sarà anche una parolaccia, ma a Livorno il culo è una cosa molto seria. Quasi fondativa d’un modo d’essere e di pensare. Scolpito in un proverbio: “Se ‘r mondo fosse un culo, Livorno sarebbe ‘r buo”. Ad orgogliosa ed essenziale sintesi di come un livornese concepisce il mondo e la posizione in esso occupata dalla sua città: al centro, così come il buco del culo sta nel preciso mezzo del culo stesso.
Con un paragone d’ambito anale certo autosatirico ma in cui si realizza non solo uno dei caratteristici elementi della trilogia gastro-ano-genitale (mangiare, cacare, trombare) alla quale la mente e la lingua livornese (una vera e propria filosofia parlata, espressa in contenuti di fisicità essenziale e in termini perennemente e familiarmente riferiti all’ambito anatomico-sessuale) rapportano ogni dialettico confronto; ma si manifesta anche, in quel paragone, la sufficienza “culturale” con la quale i livornesi sono sempre andati in culo, per l’appunto, non solo a chi gli sta vicino (e, per ciò stesso, sui coglioni: massimamente i pisani ma spesso ce n’è pure per i lucchesi e per i fiorentini), ma anche a chiunque rappresenti un potere e principalmente un potere istituzionalmente padronale, di re o ministri o papi che si tratti. Senza disdegnare l’insofferenza anche per un sindaco che voglia regolare il traffico o per un vigile urbano col blocchetto in mano. Per quell’innata ostilità a regole e dettati che ha fatto spesso definire i livornesi come un popolaccio anarcoide e arrogante, mentre anarcoide lo era prima di diventar solo succube massa di manovra per elezioni e stadi, e l’arroganza l’ha ormai mandata anche quella in culo.
E culo sia, dunque. Qui riassunto in alcuni di quegli usi verbali che a Livorno son linguaggio quotidiano, intanto con un primo gruppo, cui farà poi seguito un secondo e conclusivo gruppo.

  Culo rotto: fortuna esagerata, ma se lo dici alla Minetti  non alludi solo  alla buona stella che la fece divenir consigliera regionale in Lombardia, auspice il chiavator Berlusconi.
Che popò di ‘ulo!: che fortuna sfacciata!, ma anche galante complimento alla femmina incedente in roteanti e ben sode chiappe.
Avé’ culo: avere fortuna, come l’utente che fa un numero verde e qualcuno gli risponde per davvero.
A culo ritto: andàssene a culo ritto: tipica uscita di scena di chi se ne va con aria impermalita, come Brunetta quando non lo lasciano sovrastare neppure di parole. Si può anche andar via a culo storto, ma in tal caso prevale l’aria di risentito disaccordo, al tipico modo di D’Alema quando gli dici che ormai può solo adorarsi da se stesso.
A culo (culino) strinto: con timore, con diffidenza. Un po’ come il bambino che pur innocente sente in parrocchia il prete che gli alita sul collo.
Andà’, mandà’ ‘n culo: andare, mandare a quel paese. Un modo di dire invero assai diffuso nelle italiche terre in generale, ciascuno nell’idioma proprio, ma come ti mandano in culo i livornesi in quel loro linguaggio di così sonora insistenza, non ce n’è altri al mondo.
Avéllo ‘n culo: avere il nervoso, essere di cattivo umore (avé’ ‘r giramento), sentirsi poco bene. Decenza però vuole che quando sia il dottore a chiederti come stai, tu ti contenga in un eufemistico dé, l’ho ‘n cuffia! Avéllo ‘n culo come sonà a prèdia: averlo in culo alla grande, come alla grande suonano le campane quando chiamano alla predica.
Avé’ quarcuno ‘n culo (sur culo): avere qualcuno di traverso, averlo sullo stomaco, non sopportarlo, disistimarlo. Dal che il proverbio t’avessi ‘n culo t’andrei a caà alla Meloria s’estende a concepire il malcapitato come uno stronzo (stronzolo) da cacare il più lontano possibile, essendo la Meloria un fondale scoglioso a circa sette chilometri dalla costa livornese.
Avé’ quarcuno ar culo: essere seguiti o pressati da qualcuno. Anche in senso figurato, nella tipica situazione del genero che hai voglia d’inventà scuse, la domenica si ritrova la suocera fissa fra i coglioni.

Fine della prima parte

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