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Dall'archivio del Vernacoliere - Un pezzo di Mario Cardinali

LA SCUOLA DEL CÒ E DEL CAI

La scuola – di cui oggi tanto si riparla, con un governo stavolta che la vuol ridurre a semplice partita di bilancio da una parte, e schiere di precari dall’altra che la vedono come unica possibilità d’un lavoro purchessia, con moltitudini di studenti sempre più ignoranti in mezzo – la scuola, si diceva,  non è soltanto quella deputata all’insegnamento ufficiale. C’è anche la scuola impartita da chi dovrebbe ugualmente insegnare qualcosa, pur non essendo insegnante di professione.

Gli scrittori, per esempio, e i giornalisti. Per la scuola della lingua, almeno. Loro che la scrivono, la lingua, dovrebbero saperla scrivere meglio d’altri, al punto di poterla anch’essi insegnare.

E cosa c’insegnano, infatti, tanti di quegli specialisti di scrittura? C’insegnano per esempio a scrivere c’ho, c’hai, c’ha, c’hanno, che niente ci autorizza a pronunciare ciò, ciai, cià, cianno come intenderebbero farci leggere costoro, e come invece si legge scrivendo ci ho, ci hai, ci ha, ci hanno, come si è sempre scritto. Quale regola fonetica, quale grammatica autorizza costoro a pensare che nell’elisione della i, la c davanti all’acca possa divenire dolce?

«Diglielo anche te, Mario, ai ragazzi, che non c’è alcuna regola del genere e che c’ho si legge cò, c’hai si legge cai…», mi scriveva già parecchi anni fa Luciano Satta, esimio linguista fiorentino ed estimatore del Vernacoliere.

Macché, niente da fare. Insistono lo stesso. E mica soltanto i ragazzi. Ci sono fior di giornalisti, e di scrittori pure, magari senza fiore, che continuano a scrivere c’ho, c’hai, c’ha, c’hanno. E addirittura c’abbiamo, c’avete, c’azzecca e così via, senza nemmeno un’acca di giustificazione, seppur presunta.

La giustificazione che invece s’adduce –  l’evitare magari cacofonie o leziosità – in altre innovazioni della lingua che pur ci sono, al variar dei tempi. Come l’uso ormai invalso del gli dativo singolare per il loro dativo plurale. O come anche il ciò, ciai, ciabbiamo in avversione di grafia fonetica al cò, cai, cabbiamo di cui si diceva sopra. Taluno affermando in tal categoria d’innovazioni anche l’indicativo dell’orgogliosa certezza al posto del più modesto congiuntivo di possibilità dopo i verbi d’opinione, come il credo che è invece del credo che sia, tipica certezza ad esempio d’alemiana, motivata se non altro dalla supponenza del personaggio.

Come altra innovazione nel periodare è divenuta l’imperante ormai circonlocuzione quello che è, quelli che sono e così via, nell’allungare il brodo dei discorsi vuoti a dire per esempio ho mangiato quella che è la minestra, mi piacciono quelle che sono le donne…

E come le onde del mare, che l’una preme in successione l’altra, così le storpiature della lingua, la prima a far da spinta all’urto successivo.

Ché ormai prevale la regola dell’imitazione, nella scuola dello scrivere e parlare. Se lo dice uno che scrive sui giornali o sui libri o sulle didascalie della televisione (altra popolare scuola di scempio grammaticale e sintattico, questa televisione ebetizzante, da farti accapponar la pelle anche per bocca di conduttori tanto più in voga quanto più ignoranti), se lo dicono insomma coloro che si pongono a maestri o comunque a soggetti d’ascolto popolare, allora magari lo posso scrivere anch’io, pensano altri e magari anche istruiti. E molti, meno colti, pensano addirittura di “doverlo” scrivere, per apparire istruiti anch’essi.

Come le pecore che, quando la capofila si butta in un burrone, le vanno tutte dietro.

E quando un giorno un addetto alla scuola di lingua scriverà bèee, bèee, sempre più pecore beleran con lui.

P.S. – Ma tutti questi scolaretti che non conoscono neppure le tabelline, tutti questi studentelli che non solo non sanno scrivere ma non sanno neanche leggere decentemente un testo scritto, tutte queste aspiranti veline presentate come “studentesse” e magari anche universitarie che fra tante altre risposte al test “culturale” per mostrarsi meglio a culo in fuori confondono l’amnistia con l’eutanasia e ignorano cosa siano le Crociate e pensano che la formula dell’acqua sia O e datano il referendum Repubblica-Monarchia alla fine dell’Ottocento, tutti questi parlamentari anche laureati e parlamentaresse già un tempo mostrapuppe alla tivvù che confondono il Darfur col fastfood e non sanno neppure a quando risale la Costituzione, tutta questa massa d’ignoranti grandi e piccini d’età e di posizione sociale, ma da che scuola sono usciti? È questa la scuola che oggi difendiamo?

Mario Cardinali

dal Vernacoliere dell’Ottobre 2008

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