E s’incomincia intanto dal dé. Che parolaccia non è, ma siccome a Livorno il dé s’infila in tutti i buchi, ecco che s’attacca subito a parlare male.
E a sgombrare di volata il campo da grafia e pronuncia largamente errate non solo extra moenia ma financo nella cinta livornese, va detto a botta che col dé esclamativo (da scriversi senza h e da pronunciarsi con la e chiusa come in perché – e forse derivato da mutazione vocalica del dì imperativo di dire – dì, bellino! si sente per esempio esclamare ancora da qualche anziana popolana, come a dire guà, mi ci manchereste propio te!) niente ci combina il dèh letterario (pronuncia aperta come in caffè) che introduce preghiere e desideri.
Sentite per esempio questa invocazione d’un pio giovinotto pisano al Santuario di Montenero, prono davanti alla labronica Madonna:
«Dèh, Madonnina bella, fammi doventà livornese!»
«Dé, bimbo, ma sei scemo?! Io fo ‘ miraoli, mìa le ‘azzate!»
Infinite sono infatti le occasioni d’uso di questa tipica esclamazione (pressoché identificativa della livornesità, quantunque ora episodicamente usata anche a Pisa e in altre italiche lande contagiate dal Vernacoliere): come introduzione a un discorso (dé, ero lì che scurreggiavo, o ‘un mi son caàto addosso?!), come rafforzamento nel discorso (sicché n’ho detto stronzolo e lui dé, s’intendeva anche di brontolà!) o a sua conclusione (sicché n’ho ridetto stronzolo e l’ho picchiato benebene, dé!), in rafforzamento d’altra esclamazione (bòia, dé!) o d’un aggettivo (ganzo, dé!) o d’un sostantivo ((che tòpa, dé!), come commento genericamente asseverativo d’una qualche frase altrui (un’amica a un’altra: Certo, Berlusconi è propio un puttaniere! E l’altra: Dé!…) e in qualunque altra occasione in cui un livornese abbia da far capire d’esser per l’appunto livornese.
Di Mario Cardinali