di Mario Cardinali
Chi semina odio raccoglie anche pomodori. Come Salvini, venuto il 22 aprile a provocare Livorno col suo razzismo nutrito di tanto sbandierato odio, accolto appunto a pomodorate, lanciate al grido di “siamo tutti clandestini”.
Provocazione piccola la sua, certo, e “giustificata” con la libertà d’una campagna elettorale. Ma veniva pur sempre, il provocatore leghista – insopportabilmente “fascista” per tanto popolo, oltre che razzista – in una Livorno popolare che l’insofferenza a certe provocazioni ce l’ha nel sangue.
Quella Livorno che nel 1960 – tanto per rievocare certe matrici d’un antifascismo antico, e non a caso c’era a quei tempi il governo del fascistissimo Tambroni, che provocherà poi i morti di Genova e di Reggio Emilia – scese in piazza ad accogliere in centro città le schiere dei parà della Folgore inneggianti canti fascisti e roteanti i cinturoni a minacciosa risposta per le botte prese da un commilitone che aveva infastidito una ragazza. E quando, dopo i primi scontri con la gioventù labronica, i parà sparirono all’improvviso dal centro ed arrivarono ben più numerose e armate le colonne dei celerini in assetto antiguerriglia…
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